di Sergio Cicatelli
In questi giorni di forzato isolamento molti insegnanti si stanno dando da fare con la tecnologia per colmare il vuoto didattico imposto dal Coronavirus. Dappertutto la parola d’ordine è stata la didattica a distanza, nel presupposto – tutto da verificare – che la scuola sia essenzialmente trasmissione di sapere e che dunque, nell’impossibilità di una comunicazione verbale in presenza, un’identica comunicazione verbale da remoto possa assicurare ugualmente il servizio scolastico. Soprattutto da parte del Ministero questa sembra essere stata la strategia fondamentale (o unica), con la ricerca di fondi per fornire ai tanti alunni che non dispongono di un pc o tablet personale il necessario strumento tecnologico. Ma il tablet non basta se poi non si ha una connessione minimamente stabile e veloce e non si conoscono gli strumenti e le regole della comunicazione on line (anche da parte degli insegnanti). Improvvisamente ci si è accorti che molti insegnanti sono veri “eroi” alla pari di medici e infermieri per la dedizione con cui trascorrono ore al computer per incontrare ogni giorno i propri alunni (ben al di là dell’orario di servizio), ma tanti altri docenti sono privi di esperienza e si trovano persi in un’aula virtuale e senza la loro cattedra. Se molti, a cominciare dai vertici, si sono lanciati alla ricerca di soluzioni emergenziali per dimostrare di saper fronteggiare una situazione cui si era oggettivamente impreparati (non solo nella scuola), altri – pochi – si sono accorti che il blocco improvviso può essere l’occasione per fermarsi a pensare alla natura del lavoro scolastico, spesso associato a routine acriticamente ripetute che impediscono di rispondere alle domande più elementari: che cos’è la scuola? come si fa scuola? cosa è indispensabile per poter parlare di scuola? perché, per gli alunni, andare a scuola? Partiamo proprio da questa ultima domanda, che presuppone implicitamente che a scuola si debba “andare”, cioè che ci si debba spostare dalla propria casa per recarsi in un altro luogo fisico deputato all’apprendimento formale. Ebbene, l’emergenza sanitaria ci ha fatto capire che non è affatto necessario “andare” a scuola ma la scuola può venire a casa mia: la scuola non è fatta dalle mura, dalle aule, dai banchi e dalle cattedre, ma dalle persone che la vivono e dalle relazioni che la fanno esistere. La scuola è essenzialmente relazione educativa. L’educazione ha bisogno di vicinanza I fanatici delle nuove tecnologie esulteranno allora perché si riesce così a dimostrare che con gli strumenti adatti si può tenere in vita la scuola anche se ognuno è confinato a casa propria e nessuno è più in grado di “andare” a scuola. Gli insegnanti, forse, si stanno accorgendo di “essere” la scuola, perché anche da casa riescono a svolgere il proprio lavoro, utilizzando una forma di smart working solo pochi mesi fa inimmaginabile: c’è chi starà apprezzando la comodità di lavorare dal divano di casa e chi si domanda addirittura se sia possibile prolungare questa comodità quando riapriranno i portoni delle scuole. Ma c’è anche una riflessione pedagogica che merita di essere sviluppata ai margini di questa emergenza. Ci siamo sempre ripetuti che non c’è pedagogia senza antropologia: dietro ogni progetto educativo e dietro ogni attività educativa c’è sempre una concezione dell’uomo che si intende far crescere con quella educazione. E la nostra cultura occidentale si è nutrita fin dalle origini della lezione di Aristotele, per il quale l’uomo è, a seconda dei casi, un animale sociale (zòon politikòn, nel senso più alto della politica come conseguenza del vivere nella pòlis, nella città) o un animale razionale (zòon lògon èchon), comunque aperto all’altro. Usiamo anche la categoria della razionalità, perché in realtà Aristotele parlava dell’uomo come di un animale dotato di lògos, cioè di parola, di ragione, di uno strumento che consente di comunicare e mettere in relazione, rendendo dunque l’uomo un’animale concretamente relazionale più che astrattamente razionale. Come possiamo pensare di continuare a educare sulla base di questi presupposti se viene a mancare la condizione di una naturale socialità, momentaneamente surrogata da una relazione artificiale, tenuta in vita da strumenti tecnologici che consentono solo una molteplicità di relazioni individuali ma non possono sostituire la socialità del gruppo umano fisicamente vissuto? Per una scuola cattolica che trova nella dimensione comunitaria la sua ragion d’essere, la modifica delle modalità di relazione non può essere indifferente. E non può esserlo per nessuna scuola, che comunque ha – implicitamente o esplicitamente – il compito di introdurre alla condizione umana, cioè a una relazionalità fatta di incontri, contatti, vicinanza, convivialità, in cui la sfera degli affetti è importante almeno quanto quella cognitiva. Da questo punto di vista, nel virus che si è diffuso nel mondo possiamo vedere qualcosa di “diabolico”, nel senso etimologico del termine, cioè qualcosa che tende a separare e a separarci, proprio per privarci di un bene essenziale: la comunità e l’incontro con l’altro. Per tanti bambini o ragazzi, invece, la dimensione sociale sembra potersi ora realizzare solo in due modi: attraverso i social, cioè con una modalità da tempo condannata come semplice finzione di una vera relazione sociale, o all’interno della propria famiglia, in casa, cioè in una dimensione privata, che vale per ognuno di noi ma che non esaurisce le potenzialità relazionali di cui siamo capaci. Il futuro di una scuola con la mascherina In questi giorni di grande incertezza sul futuro dobbiamo inoltre prendere realisticamente atto della durata verosimilmente piuttosto lunga di questa emergenza. L’anno scolastico in corso è ormai da ritenere concluso, ma anche il prossimo non si presenta in una luce migliore, ed è del tutto illusorio pensare di risolvere i problemi riproponendo la didattica a distanza anche dal prossimo mese di settembre. Anzitutto perché una cosa è proseguire via internet una relazione che si è impostata in presenza e altra cosa è iniziare la relazione educativa solo attraverso uno schermo: pensiamo soprattutto agli alunni che si troveranno a settembre ad iniziare un ciclo scolastico, a dover – in condizioni normali – mettere piede per la prima volta in una nuova scuola. Sarà loro negata l’esperienza del varcare quella soglia e non sarà facile – nonostante le migliori intenzioni – avviare un rapporto didattico attraverso uno schermo, anche se con la prospettiva di incontrarsi fisicamente dopo qualche mese (perché questa emergenza prima o poi dovrà finire). Sul piano educativo dobbiamo poi fare i conti con il nuovo sguardo con cui ci stiamo rivolgendo al nostro prossimo. Già ora siamo tenuti a mantenere una rigida distanza di sicurezza, tanto più in ambienti in cui la vicinanza relativa è in qualche modo obbligata (supermercati, uffici, luoghi di lavoro). Le mascherine che dobbiamo indossare sono il segno della barriera che ci separa e della precauzione con cui accostiamo ogni altra persona, che può essere un’incolpevole ma pericolosissima fonte di contagio. Il messaggio implicito in tutto ciò è il sospetto verso l’altro, la paura del contatto/contagio, la distanza come valore vitale. Immaginare un’aula scolastica in cui tutti gli alunni indossino una mascherina e mantengano, nei limiti del possibile, una distanza di sicurezza non è tanto una situazione difficile da realizzare per motivi tecnici (cubatura delle aule, disponibilità delle mascherine, ecc.) quanto soprattutto uno scenario educativamente innaturale, addirittura diseducativo nel quadro di un progetto che voglia insegnare prossimità e apertura all’altro.
Ristrutturare la relazione educativa Torniamo allora a interrogarci sulla natura della scuola e proviamo a vedere se sia ancora possibile “fare scuola” con gli stessi criteri del passato. Sembra ormai superato lo schema rigido della vita scolastica scandita soprattutto da precisi ritmi temporali: i giorni, le ore, la campanella, le scadenze di vario genere… Gli insegnanti più intelligenti hanno capito che non si può ridurre la didattica a distanza alla classica routine spiegazione-compiti- verifica; soprattutto con i più piccoli bisogna tenere in vita la relazione personale, rassicurare, accompagnare, potendo contare nei casi migliori sui genitori (improvvisamente scoperti come alleati indispensabili per mandare avanti la didattica) e dovendo sostituirsi ad essi quando mancano, anche solo perché sono al lavoro (magari nella stanza accanto). Si è ristrutturato l’ambiente di apprendimento e deve quindi ristrutturarsi la relazione educativa, che però deve conservare la sua natura di vicinanza (nonostante la distanza) per costruire forme nuove di fiducia e di accompagnamento. È difficile pensare i primi giorni del prossimo anno scolastico, ma dovranno inevitabilmente esserci e dovranno essere giorni di “scuola”, facendo quindi comprendere – anzitutto agli insegnanti, ma anche ai genitori e agli alunni – che cosa sia davvero la scuola, cosa non possa essere eliminato. In questa prospettiva sembra un ostacolo supplementare voler percorrere la strada della soluzione unica su tutto il territorio nazionale. Le scuole non sono tutte uguali, come i territori di questo Paese non sono tutti uguali. Ci sono situazioni locali in cui ci si può e ci si deve assumere la responsabilità di riprendere una vita relativamente normale, riaprendo attività commerciali e ristabilendo contatti cauti ma concreti. Come gli adulti tornano a lavorare (o lo hanno sempre fatto) con qualche precauzione in più, altrettanto le scuole potranno riprendere a funzionare, non solo in modalità on line ma anche in presenza, valutando caso per caso la praticabilità del rientro in aula. I punti di forza della scuola cattolica nell’emergenza Da questo punto di vista le scuole cattoliche (non tutte ma sicuramente alcune) possono avere un punto di forza nelle loro ridotte dimensioni. Le preoccupazioni su cui ragiona il Ministero derivano dal modello di scuola statale, con una media di un migliaio di alunni che si accalcano in aule previste per contatti ravvicinati. Le scuole cattoliche hanno in genere dimensioni dieci volte inferiori e possono assicurare più facilmente, sotto la vigilanza del personale, il rispetto di quelle elementari condizioni di sicurezza che stiamo imparando ad adottare. Potrebbe essere questo un punto di forza delle scuole cattoliche in un momento in cui la criticità della situazione cancella addirittura prospettive di futuro. Bisogna inoltre puntare sulla creatività che le scuole cattoliche hanno sempre saputo dimostrare, per trovare soluzioni originali, turnazioni, gruppi di interesse o di livello, modalità almeno miste di lezione in presenza e a distanza, per tornare al più presto ad assicurare un servizio di cui non si comprende più bene l’essenzialità: se fosse essenziale non lo avremmo interrotto, ma se lo abbiamo dovuto interrompere vuol dire che se ne può anche fare a meno. Se ragioniamo solo in termini di assembramento, le scuole rischiano di fare la fine delle chiese e dei funerali, la cui non essenzialità è stata decretata immediatamente e potrebbe essere difficilmente recuperabile nel tempo. Queste, e molte altre, possono essere le considerazioni con cui cominciare a pensare al futuro dell’educazione. L’educazione ha bisogno di vicinanza, di contatto fisico, di comunità, perché senza questa dimensione sociale l’uomo che pensiamo di educare nelle scuole non è più quello di Aristotele, quindi potrebbe non essere più uomo.
(segnalazione web a cura del Prof. Giuseppe Serrone)
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